mercoledì 21 gennaio 2009

Voglia di pioggia

Viaggio nel mondo di Fabrizio De Andrè "Voglia di pioggia" il nome della nostra rubrica vuole essere il senso di questo viaggio tra le canzoni di Fabrizio De Andrè. Un viaggio nel suo mondo attraverso i nostri occhi che desidera quindi uno spazio di confronto in questo blog. Pioggia che di una terra è preambolo di fecondità e nel deserto è un miraggio, un’àncora, un anelito di vita. Pioggia che a volte è "acqua che non s'aspetta altro che benedetta". Pioggia che fa e disfa, uomo che crea e distrugge. La nostra voglia di pioggia si veste di attesa. Noi però la invocheremo, per poi lasciarla cadere a spazzar via il deserto.La canzone che abbiamo deciso di proporvi questa settimana è Fiume Sand Creek, tratta dall'album INDIANO (1981). De Andrè ricorda una vicenda realmente accaduta: il massacro di una comunità Cheyenne stanziatasi lungo il fiume Sand Creek, da parte del generale americano Chewington.La vicenda è raccontata dal punto di vista di uno dei superstiti, un bambino, in una dimensione che ondeggia tra l'onirico e il reale, tanto più amplificata da un ritmo reiterato quasi ipnoticamente, che introduce quella indecifrabile "musica" infernale e notturna di cavalieri di morte, sempre più vicina. Guida quelle schiere un generale non ancora uomo, che gioca a decretare l'estinzione di un mondo ancestrale, quello indiano, e per estensione anche quello di ogni particolarismo regionale. "Figlio di un temporale" lo definisce De Andrè, evocando una potenza di distruzione che ha origine dal cielo e dalle nuvole, spesso additate come simboli di un'autorità poco incline alla pietas. Il bambino supersite è diventato adulto troppo presto: la morte e la violenza rimosse dalla coscenza infantile e ricacciate dal nonno (quasi un nume tutelare) in uno stato onirico, emergono prima in precoscienza attraverso "il fiorire dell'albero della neve, ma di stelle di sangue", una macchia in un mondo ancora bianco, quindi diventa presa di coscienza definitiva. La reazione è una richiesta di risarcimento al cielo o un tentativo di rivolta contro il vento, ma il dato di realtà parla di un massacro insensato. La vicenda di Sand Creek conferma quanto già espresso nella Guerra di Piero: si decreta la morte della diversità quando all'unicità nn si riconosce un valore determinativo. Senza pietà e senza ragione, nel sangue e nella pioggia si celebra l'abdicazione dell'uomo dalla sua umanità. In attesa della fine, rimane il placido conforto senza speranza, la voce calda di un vecchio indiano, che negandola annuncia la morte, invitandoci a chiudere gli occhi.
Giuseppe, Peppe e Danilo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il testo di De Andrè, di una forza dirompente nella sua descrizione è pieno di simboli noti al popolo Cha-ya-e Nay e agli altri popoli delle grandi pianure. "Il figlio d'un temporale" è la personificazione del Signore del tuono che dava i suoi poteri ai guerrieri migliori o piu' spietati che dir si voglia(lo stesso Tashunka Witko o Cavallo Pazzo del popolo Lakota ne era portatore come si attesta dalle sue "pitture rituali" riportate nei "calendari di guerra" del suo popolo).
Ma in questo caso il Colonnello Chivington (ma generale di fatto)non era un "Sognatore di tuono" come Tashunka Witko ma piu' canagliescamente è definito "figlio d'un temporale" da un De Andrè tagliente. E ancora il sogno come dimensione di vita per i popoli delle pianure assume la sua reale dimensione. Il sogno indotto da digiuni forzati e da danze estenuanti indicava la pista da seguire, il ruolo sociale del sognatore, aiutava i consigli tribali nelle decisioni perchè indotto direttamente da Wakan Tanka, lo Spirito Superiore. Qui il sogno portatore di verità diviene un incubo. Un incubo reale di morte non solo fisica come avete stupendamente sottolineato. Il sogno apportatore di vita diventa dolore a tinte fosche, in un dormiveglia abbozzato. Ancora il chiudere gli occhi piu' volte, rituale compiuto alla fine dei riti funebri per permettere allo sguardo di staccarsi dal corpo del morto e fare in modo che lo spirito del deceduto si allontanasse senza essere in alcun modo trattenuto rappresenta un immagine forte. C'è tutta la crudeltà di un mondo nuovo che strappa via la memoria, la coscienza d'un popolo con i suoi sogni rituali, le sue usanze e il suo vivere con il mondo, non nel mondo. De Andrè trasmette la crudeltà e l'orrore dell'accaduto senza parlare di atti crudeli. Non parla del trattato di pace firmato poche settimane prima del massacro, non menziona i volontari del New Mexico e del Colorado che si fregiano i cappelli dei genitali strappati agli uccisi, non parla della mostra di feti strappati alle viscere e di arti e capigliature mostrate in un teatro di Denver qualche giorno dopo l’accaduto, né riferisce la famosa frase di Chivington: "Uccideteli tutti e scalpateli perché questa massa di idioti ha i pidocchi": è semplicemente come se lo avesse detto con una forza ben piu' grande e più dirompente.
Con la forza di un Sognatore di Tuono della parola.
Vittorio D'Antuono.