sabato 24 gennaio 2009

Voglia di pioggia

SIDUN

SIDUN è uno dei brani più suggestivi e pregni di poesia dell’album Creuza de ma, che “in direzione ostinata e contraria” irrompe nell’appiattimento discografico che risponde unicamente alle esigenze di mercato e della moda. Irrompe come un vento che soffia dal mare, che viene da lontano ma che è a noi vicino come il Mediterraneo.
Come dire il Mediterraneo? Come farlo parlare? In arabo, in greco in turco. De Andrè sceglie il genovese e sceglie bene. Un dialetto, che come come tutti i dialetti è una lingua, fatta di popolo e di popoli, di commercio e di ospitalità, una finestra spalancata sul mondo. Il dialetto che è anche la faccia linguistica delle minoranze, tanto care a De Andrè, parlato da meno persone ma non per questo chiuso, anzi vivo e aperto ad accogliere influenze linguistiche di altra gente. E chi è la nave che trasporta il carico ricco dei linguaggi? L’uomo, che nel caso specifico è il marinaio o il mercante che dal mare torna con le sue attese, sofferenze, passioni e con le sue parole di altri popoli. Una grande forma di ospitalità linguistica.
Allora Fabrizio De Andrè si fa marinaio in Creuza de ma e ci racconta il suo viaggio, musicale e linguistico, nel Mediterraneo. Da qui ci è data la possibilità di capire come l’identità di un popolo o di un uomo si costituisce sempre a partire dall’altro, che per questo va ospitato, accolto e non scacciato via. Creuza de ma va in questa direzione.
Con SIDUN si ritorna nuovamente alla guerra e alla questione attualissima del medioriente. Sidun, traduzione genovese di Sidone città libanese che fu colpita nel 1981 dalle truppe israeliane di Sharon.
Il pezzo ha inizio con la voce di Reagan in sottofondo seguita dal cigolare metallico di un carroarmato, legittimazione della forza come strumento di autodeterminazione, espressione mortificante di un potere irrazionale che si pone al di sopra di ogni principio di umanità.
Ma in SIDUN c'è ancora di più di un decadimento dei valori umani: l'individuo è dipinto in forme puramente istintuali ("gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia") e la civiltà si sgretola in una condizione di assenza di ragione, tornando ad uno stato di natura in cui prevalgono i meccanismi della forza. Il potere è regista lontano e distratto, nei suoi meccanismi rituali privi di senso diventa un'eco che apre la dolorosa melodia, con irreale macchinalità, ad illuminare di una luce sinistra e orrorifica la sua bandiera lorda di sangue. Pare rispondere soltanto alla logica insensata della autoperpetuazione e della violenza autolegittimante, agitando i suoi burattini assetati di sangue, che si aggiarno senz'anima nella folla che, folle di paura, si disperde nel caldo secco, sicura della morte nel terrore del suo crepuscolo, fino a quando ogni cosa brucia e si perde nella polvere. Sullo sfondo lo spettro della Shoah.
Assenza di ragione e di pietà proprio laddove nel Libano, l'antica Fenicia, come ebbe a dire lo stesso Fabrizio De Andrè, si formarono i germi della cultura occidentale e dove, aggiungiamo noi, all'ombra dei luoghi santi si è formata la religione della pietà e della carità. In mezzo a questo ribaltamento dei valori, il lamento di un padre che ha visto la morte violenta del figlio "labbra grasse al sole", sua unica ricchezza in una condizione di generalizzata povertà materiale; "tumore dolce benigno di tua madre" progetto di vita e di amore nonostante questa stessa condizione.
Cosa ci lascia allora in eredità la guerra se i figli sono uccisi? Un ricordo bagnato di disincanto e dolore, le lacrime di un padre senza più vita, vivo come i morti, mentre i suoi cari morti rivivono in lui di luce fioca, nella desolazione di una terra di cui rimarranno memoria e cenere; azzeramento di ogni progettualità: "Poichè di nostro dalla pianura al molo non possa crescere albero nè spiga, nè figlio"; un saluto amaro che è consapevole negazione al presente della spendibilità di ogni forma di unione: "ciao bambino mio l'eredità è nascosta in questa città che brucia e in questa luce di fuoco per la tua piccola morte".
Peppe H., Peppe D., Danilo

1 commento:

Anonimo ha detto...

sidun è una canzone estremamente attuale in cui i punti di vista e i sentimenti descritti da de andrè si rispecchiano nella realtà che alcune popolazioni del mondo vivono attualmente.
questo dimostra a mio parere quanto un poeta del calibro di faber sia estremamente moderno.
ottimo lavoro ragazzi ;)