domenica 22 febbraio 2009

Voglia di pioggia

Nella mia ora di libertà


Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere [c] causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? (...) Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse piú acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e piú [d] rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? (...) Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? – Sí, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima [517 a] che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose. (Platone - La Repubblica, Libro VII: Il mito della caverna).


A questo punto il racconto di "Storia di un impiegato" ci accompagna al suo rossore conclusivo degno di un tramonto, che se da un lato "spinge il sole al suicidio dietro i monti", dall’altro indica un nuovo sorgere che verrà, una nuova consapevolezza, la nascita di un pensiero nuovo. Una volta avviatosi verso il parlamento sulla via della realtà e non più del sogno, come abbiamo sentito nel Bombarolo, all’estasi e al riso di attesa dell’esplosione che doveva provare il suo talento, segue il fallimento, il pianto, un torrente di parole. La sua bomba rotola verso un chiosco di giornali. Fallisce il suo atto individualistico e pirotecnico. Viene arrestato, scrive dal carcere una struggente e malinconica lettera alla sua compagna ("Verranno a chiederti del nostro amore"), e proprio qui nel carcere matura la sua crescita. Qui, dove "tutti sono vestiti uguali", percepisce una dimensione che gli era lontana e preclusa prima, la collettività, la vita insieme. All’esito narrativo naturalmente si affianca un esito semantico, significativo. Il nostro impiegato capisce che se un modo c’è per lottare contro le ingiustizie sociali, le disuguaglianze, le ipocrisie del potere, questo passa dalla collettività sociale. La lotta si combatte insieme, l’individualismo fallisce e assume le sembianze di una personale sete di potere.
La canzone "Nella mia ora di libertà" disegna la fase finale del percorso di consapevolezza dell’impiegato. Si parte ancora dall'idea di una separazione sociale. La società borghese ha condannato il bombarolo, autocondannandosi tuttavia ad agire come marionetta del potere. Nei confronti della società, la posizione del condannato è ancora però quella delle ragioni del giusto e del torto: l’impiegato ancora indugia nella sua radicale chiusura, in tal senso, potremmo dire, è ancora bombarolo, non rinuncia al suo individualismo, alla sua opposizione solitaria e disperata, che lo porta a non voler condividere nemmeno l’aria con i secondini, strumenti dell’odiato potere. La premessa di aggancio al bombarolo, a questo punto, si sviluppa nel senso, prima accennato, di riscoperta della collettività.
Soltanto sperimentando la “ginnastica dell'obbedienza”, emergendo fino a toccare il linguaggio del potere e quindi distaccandosene razionalmente, una volta compreso che “non esistono poteri buoni”, che non è possibile di sapere "qual'è il crimine giusto per non passare per criminali", cioé che non é possibile rispondere alla ragione individualistica del potere con lo stesso linguaggio e che forse le ragioni umane vanno oltre l'aprioristico decreto della giustezza, una volta compreso che non ci sono soluzioni al problema se non la consapevolezza della relatività etica, che corrisponde alle ragioni dei singoli individui, é possibile rientrare nella collettività da individuo e raccogliere i frammenti sparsi del mosaico delle ragioni individuali, giungendo ad una forma alta di compassione egalitaria, che sposta su un piano altro il problema individualistico ma gerarchico del potere. Il tutto può essere illustrato seguendo il percorso della comprensione, che alfine si realizza. L’impiegato, dapprima bombarolo, vive e soffre nella incomprensione: incomprensione degli altri, che tende a qualificare come altri da sé, inaccessibili ed inavvicinabili, ignavi burattini nel terrore o carcerieri nella prigione della convenzione e della condanna borghese; incomprensione di se stesso, crisi di ruolo e prospettiva che condanna alla solitudine e all’empito (anzitutto) autodistruttivo; incomprensione da parte di una società abituata a rifugiarsi nell’etichettamento come superficiale scorciatoia di valutazione, nella consolazione del facile giudizio di valore che discrimina buono e cattivo (“tante le grinte, le ghigne, i musi”), a seconda del livello di integrazione dell’individuo nella costruzione di sistema, indipendentemente dai suoi valori, dai suoi bisogni (“ci hanno insegnato la meraviglia/verso la gente che ruba il pane”), sprezzante finanche dei suoi affetti, come nella scena dell’amata la quale “si suggerisce” “quel che dirà di me alla gente” che, armata di incrollabile pregiudizio, le chiederà conto del fattaccio. È l’ultimo stadio di una (in)coscienza sociale decrepita, fuorviata dalla costrizione, modellata dalla convenzione, condannata per questo all’incomprensione dis-umana.
Il passaggio decisivo, l’illuminazione che consente di affrancarsi dalla trappola di un individualismo sterile che è soprattutto difesa di se stessi dinanzi all’ignoto insensato, è la compassione. La condivisione del dolore degli ultimi e il transito nella sofferenza dei dimenticati, tante volte raccontati e cantati da FDA, rappresentano il luogo in cui l’afflato umanitario si veste di contenuto e consapevolezza più propriamente politici. In questo insegnamento finale si completa il passaggio dall’individuo alla stretta collettività, contrapposta alla fittizia società degli individui etero-diretti, contrapposta anzitutto perché si fonda, come detto, sulla comprensione del dolore. Ed è questo il momento in cui nel testo l'IO narrante lascia il posto al NOI. In definitiva, potremmo dire, non è possibile affrancarsi dal sistema-potere se si tenta di combatterlo dall'interno e con uguali mezzi. Occorre creare un sistema alternativo. La costruzione del potere crolla su se stessa nel momento in cui si riparte dal basso, dalle istanze degli ultimi, che individualmente si riuniscono in una ragione collettiva.
La conclusione é ambivalente: da un lato la speranza nella possibità di un rinnovamento sociale; dall'altro la consapevolezza che questo processo é lento e sofferto e che la lotta al potere costringe tutti a rientrare tra le sbarre della prigione, dove si forma la ragione collettiva. De Andrè si rivolge infatti alla fine alla società tutta ed indica in questo l'unico strumento di educazione sociale. In particolare si rivolge agli "ignavi" borghesi che per quanto si decretano assolti, sono ugualmente responsabili della perpetuazione delle ragioni del potere . La chiosa é la redenzione al rovescio. I secondini sono trascinati in prigione perchè nell'ignavia anche loro coinvolti. Compresa la condizione di generale prigionia, è proprio dalla prigione che maturano i germi della ragione collettiva ed é per questo che sono i borghesi principalmente i destinatari del messaggio di una educazione sociale di stampo egalitario, in quanto più profondamente individualisti.
Dice Fabrizio De andre: “la conclusione della storia non era amara anzi positiva . E riguarda me, nel senso che io non credo più all’individualismo, ma spero solo nel collettivismo”. Aggiunge ironicamente: “no, non mi sono iscritto a nessun partito,per me il discorso collettivo abbraccia sei, sette persone al massimo”.


Peppe H., Peppe D., Danilo


1 commento:

Anonimo ha detto...

peppe, la vostra rubrica spacca più della chat.